Il sole, il caldo, l’afa.
L’aria irrespirabile d’agosto.
L’umidità che appiccica i vestiti sulla pelle.
Le zanzare che ti assalgono.
Una scarica diarroica che ti sveglia durante la pennichella pomeridiana.
Gente che ti chiede i soldi, al semaforo, in ospedale.
Questa è Pisa al rientro.
Dove sono ora il fresco Ugandese? La brezza del lago Victoria? Le mani tese dei bimbi per salutarti? L’allegria contagiosa degli scout?
La matta di Buyege si avvicina a mia moglie, che, non trovando un posto all’interno del ristorante, si è accomodata con il piatto di portata sugli scalini esterni. La matta si avvicina, mette la mano nel piatto e afferra un po’ di riso. Gli astanti (i soliti che di fronte al bar del paese passano le ore a chiacchierare, sono qui ma potrebbero essere in qualsiasi paese del mondo) le abbaiano contro qualcosa e le lanciano un sasso. Ella si ritira.
Mia moglie la trattiene, le lascia tutto il piatto e la bottiglietta d’acqua Rwenzori. La matta traballa, parla da sola con parole incomprensibili. Mangia tutto. Poi si allontana, prende un sacchetto dai rifiuti e vi mette dentro la bottiglietta dell’acqua. Ci ripensa, ricontrolla il piatto e raccoglie gli ultimi grani di riso.
Poi si allontana.
Io, con gli scout, dentro il locale, finisco di mangiare.
La pubblicità dei telefoni cellulari è onnipresente: case e negozi dipinti con i colori delle aziende concorrenti, le baracchine con i marchi ovunque, il telefonino in mano a tutti. Questo avviene anche nei villaggi più sperduti, anche là dove la siccità provoca carestia e fame.
È stridente il contrasto fra la povertà estrema e l’invadenza di questa pubblicità.
Negli anni ’70 vi erano le parole d’ordine dei regimi, negli anni ’80 la pubblicità dei carburanti, negli anni ’90 dei computer, ora il segno dei tempi è la telefonia mobile.
La necessità di sviluppare l’economia comporta l’espansione del mercato, mediante la creazione di nuovi clienti là dove non ci sono. Qualcuno commenta che si tratta di creare bisogni non necessari.
Ma… forse no.
Forse c’è di peggio che soffrire la fame e le malattie, forse c’è qualcosa che opprime la condizione umana che l’essere profughi o temere le angherie del potere corrotto o l’immanenza di guerre e conflitti.
È la solitudine.
Se a tutte le ferite che la vita materiale ci procura si somma anche il senso di abbandono, penso che tutto diventi un macigno.
Ritengo, al dunque, che avere un cellulare risponda ad un bisogno reale, un po’ come il viaggio che facciamo, per vedere, salutare, abbracciare. Avere la possibilità di comunicare e di non sentirsi ancor di più raminghi e reietti.
Intanto, sul bus, gli scout suonano i tamburi.
Al peggio non c’è mai fine.
Lasciamo una scuola, dove bambini festosi e scalzi, sorridenti e malati, ci sono corsi incontro per toccarci, farsi abbracciare, portarci in giro per le loro aule che già siamo in viaggio per un’altra. In mezzo alla foresta, un villaggio, casupole perse lungo un tratturo disconnesso, altri bimbi ci salutano appena ci vedono passare.
Un’altra scuola, meno aule, più polvere, meno cibo, più bambini, meno letti, più insetti, meno maestri, più piedi scalzi.
Più malattie dove c’è meno igiene: è una legge spietata.
Luwero ci mostra cos’è la fame: i bambini sono come assenti, non giocano, la nostra guida ci porta subito via: non si reggono in piedi.
Il girotondo si interrompe, partiamo e lasciamo promesse, che i sopravvissuti vedranno concretizzare.
Gli scout rimangono in silenzio.
Indice e pollice della mia mano destra, uniti, rappresentano il diametro del braccio del bimbo che è in collo a me.
Il gomito è grosso e l’avambraccio è come il braccio.
Qui a Golomolo molti sono così, ma questo è venuto in braccio a me, superando la diffidenza della pelle e della barba.
Gli guardo le gambe: cosce secche, ginocchio grosso.
Piedi grandi, senza scarpe.
La polvere lo ricopre dai piedi al collo.
La pancia è gonfia, con l’ombelico sporgente.
Quando partiamo lo saluto dal finestrino del bus.
Egli non mi vede, non risponde. Insisto. Dopo un po’, un compagno lo avverte ed egli si mette la mano sugli occhi a smorzare la luce accecante e con l’altra, alfine, mi saluta.
Non ha mai parlato, per tutto il tempo che sono stato con lui, forse due parole con un filo di voce. Mi sembra che stia perdendo un incisivo: avrà 6 o 8 anni. Ma non li dimostra. Mentre i più grandi corrono e sono già accalcati intorno alle cucine, questo bambino, insieme ai suoi pari età, rimane presso il dormitorio.
Il bus riparte.
Gli scout hanno le lacrime al ciglio.
Avevo dieci anni quando portai 500 Lire ( la vecchia moneta in argento, quella con il veliero) a scuola, dove c’era un centro di raccolta per i bambini affamati del Bihar, in India. L’anno dopo, 1967, già frequentavo le medie ci fu la raccolta per il Biafra. (il termine “biafrano” indicò per molti anni l’affamato ed il denutrito). Da allora sono passati 43 anni. Son finite le colonie, è finito il comunismo, sono finiti i dittatori di allora, è rimasta la fame.
Se il meccanismo sociale che la determina potesse essere rivoltato, lo sarebbe stato già.
Perché sono qui, allora? Potranno mai cambiare in meglio le sorti dell’Africa e del mondo? Ne abbiamo i mezzi culturali, economici, politici? Esiste chi veramente li ha? Lo possono fare la scienza, la tecnologia, la medicina o anche soltanto l’elettrotecnica? Non lo so, temo di no.
Ma questo bambino che tengo in braccio, che bacio sulla testa di corti capelli crespi, che non vorrei lasciare, che mi stringe a sé, che ride se scherzo con lui, forse oggi è stato un po’ meglio. La consapevolezza globale non deve fermare le azioni locali.
Qualcuno, se non tutti, può stare meglio.
Gli scout, in mezzo al cerchio, fanno danzare ancora i bambini alle note di un canto nuovo.
I balli tradizionali dei ragazzi sul palco e le canzonette da discoteca sputate a tutto volume dagli altoparlanti dell’impianto di amplificazione fanno da colonna sonora al nostro incontro con gli studenti di Galamba.
All’interno i ragazzi ridono e battono le mani. Dall’esterno si avvicinano alcuni bambini che si accalcano sull’uscio. Qualche pattone assestato da un insegnante li allontana momentaneamente.
All’esterno, sul campo di calcio, si affrontano Italia e Uganda: la palla va, inseguita, viene poi scambiata, calciata in porta, respinta dal portiere, rimbalza sulle teste e le ginocchia. Intorno al campo, tanti altri che guardano; sono più piccoli, toccherà a loro la prossima volta.
I balli ed i giochi nel cortile della scuola, le risate, la polvere alzata, i grembiuli più o meno integri. Fuori, una capra legata ad una grossa fune è condotta da un bambino, senza scarpe né grembiule. Non va a scuola, è evidente: fa il pastore. Passa dal prato, entra e scompare nel bananeto.
Anche fra gli ultimi qualcuno è più ultimo.
Gli scout, usciti assordati dall’aula, vanno verso il prato, incontro ai bimbi, mentre alta sul pennone sventola la bandiera di Pisa.
Riattare il dormitorio degli alunni, adeguare l’impianto elettrico, risistemare l’ambulatorio. Comprare la pompa del pozzo, aggiustare il trattore, fondare una coop di sarti, qual è la priorità?
Dar da mangiare ai bimbi stremati oppure irrigare i campi riarsi dal sole oppure fornire le sementi oppure fondare una scuola agraria. Qual è la priorità?
Ritornare presto in Africa, portare altri vestiti, altri medicinali, in altre scuole, nelle stesse, non in quelle dei preti; qual è la priorità?
Sostenere a distanza oppure adottare, inviare medici, far venire studenti di medicina, mandare elettricisti, far venire studenti di elettrotecnica: qual è la priorità?
Raccogliere soldi, cambiare stile di vita, non inviare soldi, inviare preservativi, convincerli a cambiare stile di vita, convincere altre persone che qualcosa si può fare, attingere a risorse pubbliche, fare dei progetti nuovi, non fare più progetti ma potenziare quelli che già ci sono. Qual è la priorità?
Altri preti ed altre suore per respingere l’integralismo islamico o protestante; meno preti e meno suore per respingere l’integralismo cattolico; meno laici per respingere la corruzione. Qual è la priorità?
La priorità ora è riuscire a dormire stanotte, domani ripartiamo. Gli scout provano ancora la piramide umana nel giardino del refettorio.
La chiave al collo. Legata con uno spago, i più grandi hanno una chiave al collo. Non capivo, appena la notai, a cosa potesse servire. Ho compreso quando, entrato nel dormitorio ho visto i bauli. Il dormitorio è una stanza unica, con tetto di lamiera, più alto di un’aula. All’interno vi sono letti a castello a tre piani, sui quali, a volte anche in due, dormono circa 180 bambine. Nell’altro dormitorio, nelle stesse condizioni, altrettanti ragazzi. Fra le zanzariere lacerate in più punti, intravedo i bauli, di metallo, appoggiati sui materassi. Sono l’armadio” entro cui sistemano le proprie cose. La chiave per evitare che qualcuno possa rubare o anche solo violare la privacy legata agli oggetti contenuti.
La maggior parte degli ospiti della scuola è formata da orfani.
Per qualcuno, quindi, il baule è tutto ciò che possiede, tutto il corredo per la vita.
Possedere qualche oggetto personale dà ai bambini la possibilità di sentirsi unici, non solo parte del mucchio di figlioli che si accavallano intorno a noi. E, sentendosi unici, di poter essere amati per quello che sono, come persone, non come numeri di una statistica che gli assegna una aspettativa di vita alla nascita di soli 51.5 anni contro gli 81.8 di noi italiani.
La chiave al collo, per nutrire una speranza.
Frattanto gli scout intonano un altro canto.
Sull’impalcatura di un cartellone pubblicitario strappato che nessuna ripara, il marabù guarda la vita sotto di sé, alla ricerca di qualcosa da mangiare fra i rifiuti lasciati per le strade. La vita frenetica di Kampala, il traffico, la polizia all’erta, le bici stracariche di mercanzie e le motociclette stracariche di passeggeri accompagnano la vita degli ugandesi della capitale. Le strade asfaltate, ma piene di buche, collegano altre vie in terra battuta dove enormi solchi scavati dalle piogge equatoriali mettono a repentaglio caviglie, ruote e balestre.
Una ventina di pisani cerca di evitare buche e veicoli per recarsi verso la sala della cena, mentre tentano di illuminare con le torce elettriche il cammino.
I venditori lungo la via, le moto-taxi; l’immagine della caotica e storica piazza dei taxi dove, sembra impossibile, stanno pigiati come sardine in scatola, centinaia di taxi collettivi bianchi, che da lì partono e che lì arrivano in continuazione, giorno e notte.
Il traffico e la maniera di affrontarlo sono impensabili per noi: il mezzo più grosso ha la precedenza, le norme di circolazione stradale non sembra sortano un grande effetto, nonostante la ferrea vigilanza della polizia, tutta tesa ad estorcere mance. Incrociamo un ragazzo ed una ragazza che si tengono per mano, ridono; sono giovani. Dall’alto del suo traliccio il marabù osserva i due ragazzi innamorati sotto la luna di Kampala.
Anche qui la gente nasce, vive, si innamora e muore.
Mentre ci ripenso, mi sento a casa.
Gli scout urlano il loro “Buon appetito!”.
David Tosi
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